Si stima che solo 250.000 di 4-12 milioni di tonnellate di plastica che ogni anno si riversano negli oceani restino in superficie. Erosione, raggi UV e azione microbica degradano la plastica, i cui frammenti sono spinti verso i fondali, dove si depositano ed è difficile tracciarli: le microplastiche sono state individuate nello stomaco dei pesci e dei crostacei.
Circa l’80% delle migliaia di tonnellate di plastica che arrivano ogni giorno fino al mare è costituito da polietilene e da polipropilene: bicchieri, buste, bottiglie ed involucri.
Una serie di studi hanno riscontrato una grande quantità di microplastiche sul ghiacciaio alpino: una quantità paragonabile a quella rilevata nei sedimenti marini costieri europei. Si stima che nell’intero ghiacciaio alpino siano intrappolati milioni di frammenti di plastica, portati dagli escursionisti (usura di abbigliamento e di scarpe) o trasportati dalle correnti d’aria.
Il Mar Mediterraneo ha soltanto l’1% delle acque mondiali, ma contiene il 7% della microplastica marina: si stimano circa 247 miliardi di brandelli dispersi. Questo triste record è legato al fatto che l’Europa è il secondo produttore mondiale di plastica e che la plastica non viene smaltita in modo corretto. Ogni anno finiscono nel Mare Nostrum circa 570.000 tonnellate di plastica. Essendo il Mediterraneo un mare quasi chiuso, le correnti fanno tornare sulle coste circa l’80% dei rifiuti di plastica. Ne fanno le spese i due paesi con la maggior estensione di spiagge: ossia l’Italia con 12.600 tonnellate l’anno e la Turchia con 12.100 tonnellate l’anno. Il risultato è che quasi 700 specie ittiche ingeriscono plastica, che entra nella nostra catena alimentare; inoltre l’invasione delle plastiche in mare causa danni per 641 milioni di euro all’anno avendo impatto economico su ambiente, turismo, pesca ed industria marittima.
I Paesi del Mediterraneo sono fra i più grandi produttori di oggetti in plastica al mondo: questo si traduce in 24 milioni di tonnellate di rifiuti l’anno. Circa il 28% di questi rifiuti è mal gestito: non è raccolto o finisce in discariche illegali, poi in fiumi e mari. Del restante 72 %: il 42% va in discarica, il 14% a recupero energetico (termovalorizzatori o forni dei cementifici) e solo il 16% viene riciclato. Più dei 2/3 della plastica smaltita male arriva da sole tre nazioni: Egitto (42,5%), Turchia (18,9%) e Italia (7,5%). Il Bel Paese ogni anno getta nell’ambiente mezzo milione di tonnellate di plastica: le zone più critiche sono il delta del Po e Venezia, i porti di Ancona, Napoli e Palermo.
Bisognerebbe che i governanti compiano dei passi con urgenza. Misure per una più capillare ed efficace raccolta differenziata e riciclo. Nello stesso tempo bisogna limitare l’uso della plastica introducendo divieti stringenti. Occorre finanziare la raccolta differenziata e creare discariche controllate. Nello stesso tempo, bisogna investire in ricerca e sviluppo per produrre plastiche biodegradabili.
Ognuno di noi può comprare contenitori in materiali biodegradabili, preferire contenitori di grandi dimensioni rispetto ai monodose in modo da riutilizzarli, riportare a casa i rifiuti che generiamo quando siamo in giro al fine di differenziarli.
Una volta arrivata in mare, a distanza di anni o decenni, la struttura dei materiali plastici viene compromessa e degradata in piccolissimi frammenti. Un gran numero di organismi si stabilisce sulla superficie dei frammenti, dove vivono e trovano una fonte di carbonio per il proprio sostentamento.
Sono stati condotti esperimenti in laboratorio su micro frammenti di polietilene e di polistirolo messi in contatto con due differenti comunità di microrganismi: un gruppo composto da specie presenti in mare, l’altro da organismi geneticamente modificati per aggredire meglio le plastiche. Dopo vari mesi i microrganismi avevano ridotto il polietilene del 7% e il polistirolo dell’11%. La sorpresa è stata che gli organismi più efficienti nel degradare la plastica non erano quelli geneticamente modificati, ma un gruppo di microrganismi naturali.
Se da una parte ci sarebbero i microrganismi, dall’altra si può intervenire prima che la plastica possa arrivare al mare. Si possono predisporre barriere fisiche lungo i corsi d’acqua, ossia semplici barriere galleggianti per raccogliere e smaltire i rifiuti intercettati. Un altro metodo è quello di predisporre speciali cestini che, inseriti in acqua, catturano circa 1,5 chilogrammi di plastica al giorno. Il progetto è attualmente in funzione in 13 porti italiani e si sta dimostrando veramente efficace.
Il primo supermercato d’Europa “plastic-free” si trova in Olanda e dimostra che i prezzi possono essere convenienti: offre oltre 700 prodotti di largo consumo impacchettati in plastica di origine vegetale e compostabile (cioè in grado di degradarsi rapidamente), mentre gli altri contenitori sono in vetro, cartone e alluminio. Nel mondo esistono già supermercati in cui il packaging è ridotto al minimo e in cui si incoraggiano i consumatori a portare da casa le bottiglie per olio o detersivo da riempire.
Sono allo studio in tutto il mondo nuove forme di packaging alimentare, ma non tutte le plastiche di derivazione vegetale sono anche biodegradabili o compostabili: alcuni di questi materiali non si degradano nei mari, dove sembrano inevitabilmente finire.
C’è anche chi ha studiato forme di packaging commestibile derivate dalle alghe, insapori e inodori, ma queste entrerebbero inevitabilmente a contatto con polvere e sporcizia negli scaffali di un supermercato.
La bioplastica è interamente o parzialmente ricavata da materiali di origine biologica e non include componenti di origine fossile. Per biodegradabile si intende un materiale che possa essere degradato da microrganismi in acqua o nel suolo.
Una bioplastica può essere biodegradabile (come l’acido polilattico), ma può anche non esserlo (come ad esempio la Bio-PET). Anche una plastica ricavata da combustibili fossili può essere biodegradabile (come il polibutilene succinato, utilizzato per alcuni tipi di packaging), ma in genere i più usati e diffusi non sono biodegradabili. Infatti la biodegradabilità è legata a diversi parametri: condizioni ambientali, tempo, temperatura, presenza di ossigeno e di microrganismi che lo possano digerire.
La bioplastica si ricava da prodotti agricoli (patate, mais, grano, tapioca, canna da zucchero), da amidi e bucce vegetali, dalla fermentazione di zuccheri o lipidi, da oli vegetali, dalle alghe, dalla cellulosa. la bioplastica ha un minor impatto ambientale per quanto riguarda i gas serra emessi ed i consumi energetici. Tuttavia, la sua produzione può avere effetti negativi, come la riduzione delle derrate alimentari tramite occupazione di suolo agricolo, oppure l’eutrofizzazione e la acidificazione del suolo.
Purtroppo la plastica biodegradabile non risolve il problema dell’inquinamento negli oceani, ma è sempre meglio della plastica tradizionale. In acqua i tempi di degradazione rimangono lunghi: anche i frammenti che si degradano in pochi mesi fanno in tempo ad essere pericolosi per la fauna acquatica e ad entrare nella catena alimentare.